Raccontare per conoscersi

LA TRAGEDIA DI MARCINELLE

La mattina dell'8 agosto 1956 in una miniera in Belgio scoppiò un incendio e morirono 262 persone, tra cui 136 italiani

                LA TRAGEDIA

La mattina dell'8 agosto 1956, sessant'anni fa, la miniera di carbone di Bois du Cazier a Marcinelle, in Belgio, si riempì di fumo a causa di un incendio nel condotto che portava l'aria dentro i tunnel sotterranei. Morirono 262 persone, tra cui 136 italiani: tra i minatori al lavoro quel giorno, ne sopravvissero solo una decina. Il disastro di Marcinelle è il terzo incidente minerario per il numero di morti italiani, dopo quello del 1907 a Monongah e quello del 1913 a Dawson, entrambi negli Stati Uniti. Dopo la Seconda guerra mondiale, il Belgio si ritrovò con un settore industriale che aveva subito conseguenze meno gravi di quelle di altri paesi europei e con molte risorse minerarie. C'era però poca manodopera, e furono avviati programmi governativi per importarla dagli altri paesi. In Italia, al contrario, c'erano pochi giacimenti minerari e moltissimi operai poco qualificati e disoccupati: migliaia di persone partirono quindi per andare a lavorare in Belgio. Il governo italiano, guidato dal primo ministro Alcide De Gasperi, nel 1946 aveva stipulato con il Belgio un accordo che prevedeva l'invio di 50mila operai per le miniere belghe in cambio di carbone. Gli operai che andavano in Belgio avrebbero dovuto ricevere alloggio e frequentare un corso di formazione. In realtà le condizioni degli operai italiani si rivelarono pessime: dal viaggio verso il Belgio fino alle sistemazioni nelle baracche una volta arrivati alle miniere, gli operai dovettero vivere in condizioni igieniche molto scarse e vennero discriminati dagli abitanti del posto. Le condizioni di lavoro nelle miniere erano a loro volta rischiose e molto provanti.

EMIGRAZIONE ITALIANA IN BELGIO

La stagione migratoria del dopoguerra era stata aperta dall'accordo bilaterale del 1946, che prevedeva la «deportazione economica» verso il Belgio di centinaia di migliaia di italiani. La debolezza della cooperazione tra i due governi nella gestione del fenomeno migratorio fu evidente sin dall'entrata in vigore del trattato, che registrò da subito una percentuale di rimpatri molto alta tra i contingenti di emigranti, sebbene la quantità di partenze restasse altissima, come dimostrano i flussi dell'emigrazione italiana in Belgio.

Che l'accordo bilaterale fosse composto da un insieme di provvedimenti squilibrati, a svantaggio del governo italiano e soprattutto dei lavoratori immigrati è cosa ampiamente dimostrata dalla storiografia. Già nei meccanismi e nelle pratiche del reclutamento erano infatti contenute le fondamenta della direzione belga dell'intero apparecchio migratorio. Ufficialmente, erano gli uffici di collocamento dei singoli comuni a doversi occupare della ricerca - di preferenza fra i disoccupati iscritti - dei candidati per l'emigrazione, la cui età massima era fissata tra 35 e 40 anni. Le offerte di impiego pervenivano loro dal Ministero del lavoro, che li riceveva direttamente dai datori di lavoro belgi. Nella pratica le singole miniere organizzarono un sistema parallelo di reclutamento sul posto che permetteva loro di privilegiare candidati politicamente inoffensivi ed originari di regioni precise.

In entrambi i casi, i candidati prescelti venivano sottoposti ad una prima visita medica presso l'ufficio sanitario del comune di residenza. I futuri emigranti venivano poi inviati presso l'Ufficio provinciale del lavoro per un'ulteriore visita di controllo che certificasse l'adattabilità dei candidati ai lavori di fondo. I lavoratori la cui candidatura era ritenuta valida erano allora inviati al Centro per l'emigrazione in Belgio di Milano, ubicato nei sotterranei della stazione centrale. Lì sostavano qualche giorno, in condizioni di totale promiscuità, in attesa dei convogli settimanali e prima di tutto della decisone finale che seguiva all'ulteriore visita della Mission belge d'immigration e al controllo incrociato della polizia belga e italiana. Teoricamente la Sûreté belge, che operava a Milano, non poteva operare apertamente nel senso di una selezione personale degli individui, ma nella realtà molti lavoratori agricoli che avevano partecipato all'occupazione delle terre vennero rinviati al Ministero Italiano del lavoro come «indesiderabili». La selezione dei lavoratori doveva infatti garantire che questi ultimi fossero, oltre che «elementi tecnicamente capaci» e fisicamente adatti al tipo di lavoro al quale erano destinati, anche adeguati all'ambiente in cui avrebbero dovuto vivere e confacenti a «rappresentare degnamente» i lavoratori italiani all'estero.



GLI STEREOTOPI

Contro i lavoratori meridionali sussistevano molti stereotipi decisamente negativi ampiamente diffusi anche negli studi sociologici coevi, mentre il Nord Italia, per la più lunga esperienza di industrializzazione, era ritenuto dal patronato carbonifero belga un migliore bacino di reclutamento: «On distingue suivant l'origine régionale des intéressés, entre les immigrants du Nord de l'Italie et ceux du Sud de la péninsule et de la Sicile. Et l'on estime généralement que les premiers s'adaptent plus aisément que les seconds au travail et à la vie en Belgique : leur instabilité est moins accusée, ils sont plus assidus, plus laborieux, plus disciplinés, leur capacité professionnelle est supérieure, ils s'intègrent moins malaisément à la communauté locale... ».

Anche per ovviare a questa selezione che veniva contestata dalle autorità italiane, gli intermediari delle miniere che operavano direttamente in Italia avevano optato, al fine di assicurarsi una manodopera calma e affidabile, per il reclutamento degli emigranti nei villaggi attraverso il filtro delle reti parrocchiali e delle raccomandazioni delle opere vaticane. Anche nel corso del viaggio verso i bacini industriali del Belgio, che poteva durare quasi 52 ore, gli immigrati erano scortati da agenti in incognita incaricati di individuare gli elementi agitatori. Al momento dell'arrivo in Belgio venivano poi scaricati sui binari riservati ai treni merce e convogliati nei diversi charbonnages su autocarri solitamente utilizzati per il trasporto del carbone. Qui erano sottoposti all'ultimo, definitivo, esame da parte del responsabile medico della miniera. Nel caso l'immigrato fosse dichiarato inadatto al lavoro sotterraneo poteva essere occupato in superficie o convogliato verso altri settori industriali, ma nella maggior parte dei casi era dapprima rinchiuso nella caserma del Petit-Chateau di Bruxelles, poi rimpatriato. Quando invece l'operaio era ritenuto adatto al lavoro di fondo, il permesso di lavoro B, della durata di un anno rinnovabile, e che vincolava il lavoratore a cinque anni di attività ininterrotta nel settore minerario - pena l'espulsione dal Belgio - entrava in vigore, e con esso tutta una serie di problemi inattesi.

Tra i traumi principali che attendevano gli emigrati al loro arrivo nei bacini minerari predominava quello dell'impatto con la tipologia e le condizioni di lavoro. La prima «discesa al fondo» era, per uomini totalmente inesperti del mestiere, uno choc tale da impedire a molti di scendere una seconda volta. I manifesti affissi in Italia infatti pubblicizzavano il «lavoro sotterraneo nelle miniere belghe» senza specificarne i dettagli. Fino alla metà degli anni '50 inoltre, il contratto tipo non prevedeva alcun periodo iniziale di formazione professionale, e i lavoratori italiani venivano spediti ad apprendere il mestiere direttamente al fondo, senza alcuna precauzione, né la conoscenza della lingua. Le conseguenze di questa inesperienza non erano solo psicologiche. A causa della loro scarsa qualificazione, i salari erano nettamente inferiori a quelli sperati: i minatori ricevevano infatti un salario composto da una parte fissa ed una parte proporzionale alla loro produzione, un sistema che, esortando gli operai all'aumento smisurato del rendimento, aumentava la pericolosità del mestiere di abatteur. Tra le altre principali delusioni erano le deprecabili condizioni in cui i minatori italiani in Belgio vennero inizialmente alloggiati.

IL ROMANZO

"GIU' NELLA MINIERA"

Chi sono Igor De Amicis e Paola Luciani ?

Igor è un Commissario di Polizia Penitenziaria, vice comandante di una Casa Circondariale, con una grande passione per la lettura e per la scrittura. Paola è un insegnate di sostegno della scuola primaria che si occupa da anni di letteratura per l'infanzia. Sono una coppia nella vita e nella scrittura e insieme curano sul web la rubrica NarraMondo dedicata al mondo dei libri per i più piccoli.


LA TRAMA DEL LIBRO

La tragedia di Marcinelle nello sfondo della storia raccontata da Igor De Amicis e Paola Luciani.

Un incidente umano che coinvolse i minatori che lavoravano all'estrazione del carbone nel paese dei mangiapatate come venivano chiamati i belgi dagli italiani.

Visto che loro erano mangiaspaghetti per gli autoctoni.

Una storia di rivalità tra italiani tanto lontani da casa, emigrati controvoglia in un paese straniero per guadagnare soldi che servivano a mantenere la famiglia e belgi che li trattavano con odio perché vedevano in essi persone che rubavano il lavoro.

Un lavoro sporco e pericoloso per entrambi!

Se i grandi erano rivali o mal si sopportavano, i bambini di conseguenza rispecchiavano il comportamento dei grandi agendo allo stesso modo.

Lo capisce bene Fulvio arrivato da poco a Marcinelle con la madre.

Lui non avrebbe mai voluto abbandonare la sua terra, l'Abruzzo.

Non avrebbe mai abbandonato le sue montagne e l'aria pura che respirava, ma doveva raggiungere il padre che da tempo lavorava nella miniera.

Comprese subito com'erano i ragazzi belgi nei confronti degli italiani e riuscì ad integrarsi bene (dopo un momento di diffidenza iniziale superato con una prova) con i ragazzi italiani: Vittorio, Ciro e Silvana.

La convivenza con i ragazzi autoctoni (Paulette, Eddie, Jean Claude..) correva sempre sul filo del rasoio tra dispetti e sfide per stabilire una supremazia tra gli uni e gli altri.

L'ultima sfida avrebbe deciso il comando supremo e il possesso di un fantomatico tesoro, ma era un'impresa decisamente difficile perché si doveva svolgere all'interno della miniera.

Trovarono davvero un tesoro alla fine, più prezioso dell'oro...un tesoro di solidarietà tra i due popoli.

Dopo l'incidente erano tutti più uniti e non solo nel dolore.



COSI' ERANO I NOSTRI MIGRANTI

Tra il 1946 e il 1963 ben 867 italiani persero la vita lavorando nelle miniere del Belgio. L'accoglienza degli uomini che il nostro governo mandava in cambio di sacchi di carbone belga, fu scioccante. I nostri migranti partirono perchè richiesti, con i loro bei documenti in ordine e furono scaricati nella zona merci, lontano dagli altri passeggeri e dopo un viaggio che pare durasse 52 ore. in seguito ebbero alloggi miseri, vita isolata dal resto del paese, insulti, come quelli del cartello dell'immagine sopra riportata. Ebbero l'onore di esser chiamati "musi neri", subendo anche maltrattamenti dai locali perchè i nostri operai erano notevolmente più produttivi dei belgi. 



IL LAVORO DI  CATERINA PEDICONI E RICCARDO RECALCATI

                                CLASSE 1 AS  LICEO SCIENTIFICO GIULIO CASIRAGHI

LE NOSTRE FRASI PREFERITE

Le frasi che più ci hanno colpito e che secondo noi rappresentano l'evoluzione dei protagonisti nel corso del romanzo

pagina 36

"Suo padre si lanciò verso di lui e lo abbracciò. Lui sentì la forza di quelle braccia, l'odore della stanchezza e della miniera... Adesso era a casa"

pagina 52

"La bandiera italiana. Guardando Paulette dritta negli occhi, Fulvio legò il drappo alla sua picozza e, con un colpo secco, la piantò sul terril. Poi si girò verso gli altri e disse "adesso possiamo anche andarcene".

pagina 96

"Ma come funziona?" chiese Ciro incuriosito. "E' semplice. La rotazione della manovella carica la dinamo che accende la lampadina, ma carica anche la molla del carillon, che prende a suonare facendo ruotare i piccoli pannelli di carta velina. Luce blu e musica..."

pagina 160

"E adesso? Di chi è?" chiese piano Fulvio. "È tuo. L'hai tirato fuori tu" rispose Paulette. Fulvio la guardò "Sì, ma tu l'hai visto per prima... " Il tesoro è nostro! Mio, tuo e di Fulvio. È di tutti! Fulvio sorrise al piccolo Jean".

pagina 176

"Era quello, il tesoro. La vita di un minatore. I suoi ricordi".


Frasi che descrivono le condizioni dei lavoratori nella miniera

pagina 34

"Sembrava un unico grande serpente, nero e sinuoso... erano i minatori. Tanti, tantissimi minatori che tornavano alle baracche alla fine del turno. Erano completamente neri. I vestiti, le scarpe, le mani, la faccia. Camminavano stanchi, le spalle curve e i piedi che si trascinavano lenti".

pagina 172

"Fulvio studiò il bambino per un istante, poi lo sollevò con tutte le sue forze... e lo portarono in salvo. Fulvio vide gli occhi chiari di Paulette. Lucidi. Meravigliosi. Il ragazzo afferrò lo scrigno del tesoro, preparandosi a saltare. Poi una nuova esplosione squarciò la miniera".

pagina 153

"Paralizzato dal terrore vide l'ascensore che si muoveva con le gabbie e il carico che penzolava di fuori. I carrelli sporgenti urtavano una barra d'acciaio che si spessò sotto il colpo... tranciò in un sol colpo delle condotte dell'olio... ci fu una scintilla. L'olio prese fuoco".

Frasi che secondo noi evidenziano meglio gli stereotipi presenti nella storia

pagina 20

"Un italiano che fa il sorvegliante. È una vergogna... "sgobba come una bestia, ecco cosa fa! Lui e la sua gentaglia , se ne vengono dal loro dannato paese e ci rubano il lavoro!"

pagina 21

"Maledetti, mangiaspaghetti!"... lei pensò che aveva fatto proprio bene a umiliare quel ragazzo italiano".



Un breve commento personale

Un'opinione precostituita e generalizzata l'hanno solo gli animali . Il topo quando vede il gatto scappa senza sapere che in realtà ha già mangiato. "il gatto è cattivo" pensa il piccoletto. Questo è un pregiudizio.

Analogamente, espressioni come "l'italiano è un rubalavoro" (nella storia del libro) oppure "lo straniero profugo ci ruba il lavoro" (sulla bocca di tanti oggi)  sono pregiudizi, stereotipi che avvelenano la mente di  giovani e meno giovani. L'esempio del topo, che però non si chiama "gatto", inerme di fronte al pericolo, ci deve far comprendere che il "pericolo" non va affrontato chiudendosi, bensì trovando una soluzione che accontenti tutti senza discriminare o affidarsi a  pregiudizi e stereotipi.

Questo è quello che capiscono i ragazzi alla fine di questa avventura; lasciano infatti da parte i pregiudizi e si rendono conto, sia Fulvio (timido, coraggioso e col sangue freddo) sia Paulette (determinata, leader che non perde mai la speranza), che in fondo sono molto simili, e quindi sostenersi fino alla fine tanto che il ragazzo si sacrifica  per salvare la ragazza e suo fratello Jean. In questo senso l'amicizia diviene un valore inestimabile.




STORIE E TESTIMONIANZE

a cura di Anita Lacci, Giorgia Radaelli e Nicoleta Josanu

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Alvaro Palazzi era nato a Monteciccardo ( Pu) il 2 febbraio 1922.

Lavorava in Belgio da anni, quando stanco di star solo, aveva chiamato presso di sé la famiglia: la moglie Renata e le figlie Floriana di tre anni e Graziella di sei mesi.

Così ricorda quei giorni Renata, la vedova:

Difficile descrivere il mio soggiorno in Belgio. E' durato qualche mese soltanto. Mi crede se le dico che non ho mai visto la miniera? So dove era l'ingresso,certo, ma tutto qui. Avevo due bambine piccole e perciò ero sempre in casa.

Quella mattina avevo una grande ansia e non sapevo perché. So solo che quel giorno mio marito non è tornato alle sedici come sempre, e da allora non l'ho più visto.

Lavorava a 1035 metri di profondità e lo hanno riportato in superficie quaranta giorni dopo la sciagura.

I dirigenti della miniera sono venuti a casa per chiedermi se Alvaro aveva qualche segno di riconoscimento: ho detto loro che gli mancava la falange ad un dito e che aveva alcuni denti argentati, come si usava allora.

Mio fratello, che lavorava in Lussemburgo, mi ha aiutato a sbrigare tutti gli adempimenti.

Non avendo mai visto mio marito morto, mi sono chiesta all'inizio, se ci fosse veramente lui dentro la bara che portava il suo nome. Mi torturavo pensando a questo, fino a quando non l'ho sognato. E così l'ho accettato.



STORIE E TESTIMONIANZE

a cura di Anita Lacci, Giorgia Radaelli e Nicoleta Josanu

Giulio Pierani, nato a Petriano l'11 aprile 1924.

Si era sposato nel 1952 con Evelina Sperindei di Farneto (Montellabate) ed era in Belgio per pagare quelle quattro mura che stavamo costruendo in via Tumiati a Pesaro, zona Muraglia.

E' la signora Evelina a ricordare il marito durante un'intervista concessa nella sua casa di Pesaro:

"Mi ero sposata da poco. I miei documenti non erano pronti al momento della partenza, così sono partita poco dopo, con conoscenti".

I suoi genitori erano contenti della sua partenza?

Si partiva per lavoro, era una cosa accettata da tutti. D'altronde nella nostra famiglia eravamo in sei., in quella di mio marito erano in nove, e qui non si trovava lavoro a quel tempo.

Che ricorda del viaggio?

A Milano siamo stati alloggiati nei sotterranei della stazione. Abbiamo dormito la due notti, noi donne dormivamo in una stanza separata, una grande stanza con i letti a castello. Io non li avevo mai visti.A Milano anche noi familiari siamo stati sottoposti a visita medica.

Cosa l'ha colpita maggiormente all'arrivo?

Il nero dell'ambiente: c'era polvere nera dovunque,un paesaggio tetro. Da fuori le baracche erano proprio brutte, ma dentro no,erano tenute bene. Poi erano molto calde, c'era una grande stufa in ghisa al centro di ognuna, e li si cucinava.

Mi ero sposata da poco, ero innamorata e quindi contenta di poter stare con mio marito.

Conosceva qualcuno a Marcinelle?

Oh, si. Le mogli di Palazzi, Dionigi e Antonini abitavano vicino a me; alcune le conoscevo già da prima, come la Palazzi perché era di Montegaudio, paese vicino al mio.

Che mangiavate abitualmente a Marcinelle?

Le verdure non si trovavano, ne crescevano veramente poche. Qualche volta andavamo a comprarle in Francia e così facevamo per il vino. In compenso bevevamo molto latte e mangiavamo molte patate.

Quando erano previste le ferie quell'anno?

In luglio, come sempre. Quell'anno le passammo in Belgio. Avevamo un primo momento pensato di venire a Pesaro, poi abbiamo fatto dei conti e deciso di risparmiare, dato che ci proponevamo di rientrare definitivamente l'anno seguente.

Quel giorno, l'8 agosto, doveva essere lunedì, se non sbaglio. Era, comunque, il giorno di rientro dal periodo di ferie.

Avevate un bambino...

Si. Claudio è nato in Belgio. Mio marito era felicissimo, per di più un maschietto, proprio quello che aspettava. Era molto portato per i bambini, devo dire. Io non ho voluto averne un altro subito,preferivo aspettare il ritorno in Italia.

Perché?

Giulio lavorava sempre ed io ero sola ogni volta che Claudio stava male o doveva andare in ospedale. La lingua la conoscevo molto poco, era un problema per me.

Avere un bambino in Italia sarebbe stato sicuramente più facile.

Cosa ricorda di quella mattina?

Quando ho sentito la sirena, ho avuto paura, come sempre. Avrei voluto uscire, ma non potevo muovermi da casa, perché Claudio aveva il morbillo e non potevo lasciarlo solo.

Quel pomeriggio mio marito non è tornato, ma gli altri cercavano di rassicurarmi, anche se forse conoscevano la gravità della situazione. Sicuramente più di me. Anche se angosciata, ho sperato per una settimana intera, invece è rimasto a 830 metri di profondità. Non ho visto mio marito morto, e mi è rimasto sempre il dubbio che non ci fosse lui nella bara,ci ho pensato sempre...

Il funerale?

E' stato celebrato la. Erano funerali collettivi,organizzati a mano a mano che riportavano i corpi in superficie. A Pesaro le salme sono arrivate in dicembre. La camera ardente è stata allestita nella chiesetta di Sant'Ubaldo, quella dietro al municipio, mentre la cerimonia funebre è stata celebrata nel duomo.

Cosa è successo dopo?

Sono andata ad abitare a Pesaro, in via Tuminati,nella casetta che avevamo cercato di costruire. Mio marito lavorava in miniera proprio per questo.

Era già pronta?

Beh, il primo piano era quasi completato.Chiaramente non avevamo le esigenze attuali, per cui andava bene.

E Claudio?

Claudio ha sempre sofferto la mancanza del padre. Si era affezionato molto a mio fratello, carabiniere. Poi, purtroppo, è morto anche lui.

Come ha superato quel dolore?

I miei genitori sono venuti ad abitare con me. Mi hanno molto aiutato, non so se ce l'avrei fatta senza di loro. Sono stata molto male dopo la morte di mio marito. Era una disgrazia troppo grande per una giovane donna che aveva poca esperienza della vita, come tutte le donne di allora.

Attorno all'emigrazione si parla da qualche anno ma nessuno per molto tempo si è interessato alle vedove dei minatori. Il Sindaco di Pesaro si sorprese molto allorchè gli mostrai il documento con il quale avevamo accettato l'indennità che era agganciata al valore della lira.

- Se la lira va male, voi non prenderete quasi nulla. Lo sapete questo? Nessuno velo ha detto? Nessuno vi ha consigliato? - mi domandò stupito.

No, nessuno ci consigliò in Belgio. Ci portarono,frastornate come eravamo, al Consolato e lì firmammo i documenti. Anche la riscossione della pensione non è stata sempre facile, non arrivava puntualmente. Talvolta dovetti far intervenire le autorità per averne notizie.



STORIE E TESTIMONIANZE

a cura di Anita Lacci, Giorgia Radaelli e Nicoleta Josanu

Davilio Scortechini era nato a Cingoli (Mc) il 4 giugno 1914. E' l'unica persona che ci ha aiutati nella vita - racconta Pietro Perugini parlando del cognato:

Sono emigrato in Argentina nel 1949. Ero muratore, ma qui dopo la guerra non si trovava nulla da fare. Il parente che doveva venire a prendermi al porto di Buenos Aires non si è fatto vivo e mi sono trovato solo, oltreoceano, senza sapere di Neuquèn e poi nella penisola di Valdès. Mia moglie Maria mi ha raggiunto nel'52. Nel '54 siamo rientrati con una bambina di quattro mesi. Avevamo con noi tutti i nostri risparmi che, a seguito della svalutazione sopraggiunta in Argentina, qui erano poco più di niente. Mio cognato ci ha messo a disposizione la sua casa e tutti quello che c'era dentro. Questo non si può dimenticare.

Mio fratello era stato prigioniero degli inglesi in Palestina durante la seconda guerra mondiale, poi nel '47 è partito per il Belgio - continua la sorella Maria.

Era la da nove anni e si era ammalato ai polmoni. Lo abbiamo rivisto un mese prima della morte, qui, in paese.

- Resta- gli ho detto - nove anni in miniera non sono pochi. Mi ha risposto che preferiva stare in Belgio dove il clima era più fresco. Gli era più facile respirare e aveva deciso di fermarsi ancora un po' la.

Mi disse poi, che a seguito della malattia era stato esonerato dal turno di notte e da quello di giorno, lavori faticosi che aveva fatto per anni. Era stato preposto, proprio per le sue condizioni fisiche, alla gestione dell'ascensore dove, disse, non c'era alcun pericolo, "tranne che in caso d'incendio".

Non ho mai dimenticato queste parole.

Il suo corpo è stato ritrovato dopo due anni.

STORIE E TESTIMONIANZE

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Fu la voglia di libertà a spingere in miniera Nicola Dezi, nato a Macerata il 6 marzo 1930. Questo è quanto mi racconta la sorella Angela Dea:

I miei non volevano che partisse, perché non ne aveva alcun bisogno. Capisco chi doveva mantenere la famiglia, ma non era certo il suo caso, dato che aveva 18 anni quando partì nel '48. Mia madre gli aveva addirittura trovato lavoro in una segheria, ma Nicola non ne aveva voluto sapere.

Era un buon ragazzo, ma voleva sempre fare di testa sua. Poiché i suoi amici partivano, lui non ci ha pensato su troppo. I miei genitori erano un po' severi, come usava a quei tempi e io credo che scegliendo il Belgio, Nicola avesse scelto l'indipendenza. Chissà cosa pensava di trovare! I miei piansero tanto e quando successe la disgrazia erano già morti.

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